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“I veleni degli occupanti non giungono a lordare la caverna della libertà. Il mio cuore è un sacrario illuminato dal sole”.
Hanno solo questo i curdi, come scriveva uno di loro, prigioniero in Turchia. Il loro unico spazio possibile è quello interiore.
Il Kurdistan non è mai realmente esistito e mai sarà. L'ideologia degli stati nazionali, anziché affermare la sua legittimità, l'ha definitivamente seppellita tra gli interessi spartitori delle potenze coloniali all'indomani della Grande Guerra. Che oggi si rinnovano in un conflitto già in corso lungo l'asse tra l'Iran e i confini sudorientali dell'Europa, riducendo i curdi – e addirittura i medesimi sotto-gruppi armati al loro interno – ora come prima linea dell'esercito della civiltà, ora come “ cellula terroristica ”. Negli stessi giorni, in regioni diverse.
Nelle scorse settimane, sulla questione curda, tra Turchia e Unione Europea è scoppiata un'apparente polemica. Il governo Erdogan aveva appena ricevuto parole di accalorato sostegno dai vertici politici e militari occidentali per la perdita di tredici militari in un attacco dei ribelli del Partiya Karkeren Kurdistan (il Pkk, Partito dei Lavoratori del Kurdistan), l'ennesima violenza di un conflitto che nei soli ultimi due anni è costato la vita a oltre duecento combattenti, in larga parte tra le file dei curdi. Una violenza riattivatasi dopo la tregua unilaterale annunciata dagli stessi indipendentisti nel 2002, che poneva termine a quindici anni di sangue conteggiato ufficialmente sulla cifra di trentaseimila morti, ultima catastrofe di un popolo che aveva già perso, stimano alcuni storici, un milioni di vite nel periodo tra le due guerre mondiali. Incassata la solidarietà, il premier si è prontamente spinto oltre, annunciando la possibilità di “un'operazione al di là del confine, se necessario”. Scandalo, non si può, la Turchia stia al suo posto, reagisce a quel punto Bruxelles, per bocca ufficiale dell'Alto Commissario agli Esteri Solana. Tacciono invece la Nato e la Casa Bianca, e in questo caso si evitano la palma dell'ipocrisia, perché perfino il più superficiale degli osservatori dell'area è a conoscenza che i raid turchi sono antichi quanto la Turchia, e si sono reintensificati all'indomani dello sembramento iracheno, con tanto di bombardamenti mirati e caserme oltrefrontiera.
In ballo non c'è soltanto la sicurezza di Ankara, c'è anzitutto la battaglia globale per la regione forse più ambita del pianeta, per interessi geopolitici e risorse minerarie e idriche. I 450mila chilometri quadrati che si chiamerebbero Kurdistan (oltre la metà dei quali già in territorio turco) sono la culla del Tigri e dell'Eufrate e i depositari dei più ricchi pozzi petroliferi di Turchia, Siria, Iraq e Iran, sconfinanti perfino nell'ex Unione Sovietica. E i profitti, naturalmente, vanno altrove, nelle casse dei governi e soprattutto in quelle delle multinazionali, riducendo i venticinque milioni di curdi, anche con politiche di assimilazione forzata e marginalizzazione agricola, alla povertà e al perpetuarsi di una società sostanzialmente pastorale e feudale, con una gerarchia ostile al formarsi di un movimento popolare a vocazione internazionale, fino almeno all'istituzione del Partito del recluso Ocalan nel ‘73. “Terroristi”, ha sentenziato l'Unione Europea, anticipando perfino gli Stati Uniti nell'estendere la medesima etichetta auspicata da Ankara agli eredi del Kongra Gel.
L'attrito tra il quartier generale della Nato e il suo avamposto turco un motivo di sostanza tuttavia ce l'ha, e si trova nel gioco delle armi. Le forniture al Pkk non vengono solo dall'Iran o dalla Siria, ma anche da Occidente. Girate non più tanto dal Bagdad (che ha di recente promesso per iscritto ad Ankara di fermare l'attività di contenimento antiturco), quanto probabilmente dai combattenti curdi in Iran, armati e addestrati da americani e britannici. Attraverso gli attacchi del Pjak, la costola locale dei “terroristi” dello stesso Pkk, è infatti già iniziata la guerra occidentale contro le Guardie della Rivoluzione di Teheran. Rimane per ora il fastidio della Turchia, da rabbonire con l'assenso occidentale all'ennesima repressione dei suoi curdi. |
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